Per le gerarchie ecclasiastiche, “streghe” erano tutte le donne ritenute responsabili di intrattenere rapporti col demonio e di utilizzare i loro malvagi poteri per rendere sterile il suolo, uccidere il bestiame, rapire i bambini. Le streghe, perciò, simili alle Erinni, alle Arpie, ai mostruosi personaggi di alcune favole africane: creature mortifere che tutto inghiottono e tutto distruggono.
Ma questo non è che un modo, fra i tanti, di considerare le maghe; parola che, etimologicamente parlando, ha un significato tutt’altro che pernicioso: deriverebbe infatti dall’aggettivo magnus, “grande”; oppure dal persiano magidan, “purificare”, ossia sacerdote del fuoco. E, se ci addentriamo sempre più indietro nel tempo, “streghe” erano le guaritrici, le levatrici, le Veneri dai fianchi sformati, le Grandi Madri.
Mara Meimaridi, antropologa al suo primo romanzo, rievoca le tinte forti della Smirne di fine Ottocento, un quadro coloratissimo in cui si mescolano etnie, odori, lingue e antiche credenze; storia e fantasia; erotismo e crudeltà; la morte e un pungente senso dell’umorismo.
Katina e sua madre Eftalìa giungono a Smirne dalla Cappadocia. Qui conosceranno la turca Attarte, l’”illuminata”, la Madre che, con le sue arti magiche, le aiuterà a uscire dalla miseria e ad affermarsi nell’alta società. Katina, infatti, grazie alla magia riuscirà a conquistare e a sposare gli uomini più ricchi della città, accumulando beni e denaro.
“Streghe” sono, nelle vivaci pagine della Meimaridi, tutte quelle donne che producono una frattura all’interno del tessuto sociale, delle convenzioni, del destino. Streghe sono coloro che si arrogano il diritto di scegliere e di operare un cambiamento. Nel bene come nel male: alle figlie di Attarte viene concessa massima libertà ed esse scelgono autonomamente il percorso da seguire. Molte, come Eftalia e sua figlia, prediligeranno il fulgore dell’oro, una sola delle molteplici facce della Luna:
Questo lato ha scelto, questo lato scelgono tutte le mie figlie e io non glielo nego, perché voglio vederle felici. Questo bagliore le ubriaca, per questo si spengono. Katina l’ha capito, ha capito che il bagliore dell’Oro non è la Luna intera e si è pentita amaramente e si è punita da sola…
spiegherà Attarte. Non c’è spazio, nel romanzo della Meimaridi, per il romanticismo. Né le protagoniste fanno sfoggio di grande dignità. Nonostante i quaderni di magia e le fattucchierie, nella storia di Katina e dei suoi interessati amori si distinguono piuttosto le tonalità accese di un vivo e speziato realismo, percorso da fili sottili di autentica poesia – al femminile, è d’obbligo.
Sui marmi di Efeso, al mare e nei boschi intorno avvenivano le nostre feste. Duravano tre giorni, tre giorni e tre notti. Sempre nel caldo torrido di agosto, quando il cielo si illuminava di migliaia di stelle e stelle cadenti. In quelle feste non c’erano canzoni e balli, né divertimenti e risate, come alle feste degli uomini. Il nostro intento era ascoltare le onde e ribattere al loro mormorio. Per canzoni avevamo i fischi del vento e il crepitare del fuoco nel bosco, mischiato ai profumi degli alberi. Venivano le iniziate, di ogni tipo, alcune con soffici abiti, perle e pettinature fatte ad arte; altre vestite stranamente come Aràm; altre con semplici castani. Si sedevano in circolo, bevevano vino brusco gradevole, in coppe di bronzo. Accendevano fuochi e bruciavano foglie secche che sollevavano in alto il loro fumo odoroso. Lo aspiravano con voluttà. (p. 331)
Mara Meimaridi
Le streghe di Smirne
Edizioni E/O
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