«Scrivo le mie parole in modo che siano perfette. Il tono, la forma e la consistenza delle parole devono essere il massimo della perfezione… narrativa e autobiografia non sono modalità così diverse fra loro; entrambe richiedono la grande abilità di forgiare, selezionare e comporre una serie di motivi e modelli che rappresentano, o danno l'illusione di rappresentare, la completezza. Non c'è superiorità di una forma rispetto all'altra; la superiorità o non superiorità dipende dalla passione e dall'immaginazione.»Mi piace quest'idea di precisione - il gusto per il labor limae. Un gusto un po' antiquato, perché - diciamocelo - oggi si scrive e si parla con avvilente superficialità. Nell'era del Web e dei social network (caratterizzata da una scrittura facile, veloce, poco ponderata, e da un'informazione ipertrofica, non sempre attendibile e di qualità) è sempre più diffusa la "comunicazione ad effetto": ci si esprime per luoghi comuni, con frasi fortemente enfatiche e di rado supportate da una coscienza approfondita dell'argomento in discussione. In questo modo, non si cresce mai e, per giunta, si fa violenza alle parole.
Ogni giorno i vocaboli della nostra lingua vengono umiliati: perché surclassati dalle più rapide parole inglesi e straniere; oppure perché viene misconosciuta la loro storia; oppure, ancora, perché chi parla (o scrive) non è (più) in grado di riconoscere le sfumature di significato esistenti tra un termine e l'altro.
Come affermato non molto tempo fa da Erri De Luca: «[In Italia] la libertà di parola esiste, parlano tutti, parlano tanti. Da noi non è un problema di quantità di parole, semmai di qualità».
Le parole sono vive, evolvono, mutano e cambiano - in meglio o in peggio - attraverso le epoche della storia: non riconoscerlo, significa condannare a morte una lingua e, insieme ad essa, anche la capacità analitica della comunità dei parlanti.
Rinnegare la varietà dei sinonimi, la precisione delle definizioni, la connotazione positiva di un termine rispetto a un altro porta all'appiattimento linguistico e al negazionismo e ci conduce a grande rapidità verso il calderone vischioso del relativismo, dove tutto può essere accettabile, a seconda della prospettiva da cui lo si considera.
Piuttosto, in questi tempi di confusione, ci sarebbe bisogno di precisione - anche nelle parole. Precisione e coraggio: non dobbiamo avere paura di nominare ciò che deve essere nominato, per quanto spavento possa incuterci. Nominando si crea; e solo ciò che è stato creato, se negativo e pernicioso, può essere combattuto.
Al contrario, un gran numero di persone, oggi, teme di essere "nominato" - e dunque di esistere. Persone che utilizzano senza pudore parole come "negro", "finocchio", "culattone", ma non vogliono essere definite razziste né omofobe. Uomini che conducono una guerra disperata, a suon di cifre e percentuali, per negare l'esistenza del femminicidio - senza rendersi conto che "femminicidio" e "femmicidio" sono due cose diverse e rifiutando per sé l'accusa di maschilismo. In questo magma d'ipocrisia e sprovvedutezza, vacillano le certezze e ogni forma di (sana) pignoleria - né è chiaro ciò che dobbiamo contrastare e perché.
Siamo angosciati dall'idea di doverci guardare le spalle da chissà quanti e quali nemici, blateriamo per non discutere, farnetichiamo per non argomentare.
Non ho mai vissuto in questo modo (poiché possiedo un'identità politica e culturale di cui non mi vergogno affatto), ma immagino che, a lungo andare, risulti frustrante. Forse è per questo che in molti, oggi, sono così arrabbiati: la mancanza di lavoro, unita alla perdita progressiva della capacità espressiva e dell'identità (individuale, politica...) può portare all'esasperazione.
In qualità di insegnante e di appassionata scribacchina, a lungo mi sono interrogata sulle possibili vie d'uscita da questa impasse linguistica e culturale. Bisognerebbe condurre una lunga analisi sul ruolo della scuola, sulle moderne possibilità di apprendimento, sullo svilimento dell'italiano nei programmi ministeriali... ma sarebbe un dibattito lungo e tedioso. Nell'immediato, si potrebbe ricorrere alla sana e vecchia curiosità: non fidatevi di tutto ciò che vi viene urlato addosso. Siate ingordi. Documentatevi, leggete - qualunque sia il vostro titolo di studio, la professione che avete scelto, la corrente politica a cui avete deciso di (non) appartenere. Imparate a chiamare le cose col loro nome - e ricordate che, se di nomi ce ne sono così tanti, ci sarà bene un motivo. Siate pacati. Non gridate. E non abbiate paura degli altri, se ancora non avete chiaro chi siete voi - se non avete ancora trovato la parola che vi definisca.
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