«Vuoi giudicare del come senza capire il perché? Tu hai sempre fretta di emettere sentenze, Maria.»
«Non sono io che ho fretta, anzi. Se le cose devono accadere, al momento giusto accadono da sole.»
La vecchia si tolse lo scialle bruscamente, lasciandolo cadere senza grazia sulla sedia. Gli occhi scuri fissarono Maria con una certa severa impazienza. [...]
«Accadono da sole...» mormorò, sorridendo senza alterigia. «Sei nata tu forse da sola, Maria? Sei uscita con le tue forze dal ventre di tua madre? O non sei nata con l'aiuto di qualcuno, come tutti i vivi?»
«Io ho sempre...» Maria accennò a replicare, ma Bonaria la fermò con un gesto imperioso della mano.
«Zitta, non sai cosa dici. Ti sei tagliata da sola il cordone? Non ti hanno forse lavata e allattata? Non sei nata e cresciuta due volte per grazia di altri, o sei così brava che hai fatto tutto da sola? [...] Altri hanno deciso per te allora, e altri decideranno quando servirà di farlo. Non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada, Maria, e tu dovresti saperlo più di tutti. [...] Non mi si è mai aperto il ventre e Dio sa se lo avrei voluto, ma ho imparato da sola che ai figli bisogna dare lo schiaffo e la carezza, e il seno, e il vino della festa, e tutto quello che serve, quando gli serve. Anche io avevo la mia parte da fare, e l'ho fatta.»
«E quale parte era?»
«L'ultima. Io sono stata l'ultima madre che alcuni hanno visto.» [1]
In un'epoca in cui la smaniosa ricerca dell'identità personale spinge molti di noi a scelte meschine e contro natura (è apparsa su "La Stampa" di sabato scorso la notizia che sarà possibile congelare i propri ovuli e diventare quindi madri in età sempre più avanzata...), è consolante leggere la conferma che noi donne (o dovrei scrivere "Donne", con la D maiuscola?) abbiamo modo di essere tali e di essere Madri in molti modi; che, in un'epoca di totale mancanza di consapevolezza, ciò che potrà salvarci sarà la scelta giusta al momento giusto - la capacità di vedere e di comprendere anche ciò che appare lontano dalle nostre convinzioni.
Nel bellissimo romanzo di Michela Murgia, Maria Listru imparerà questa lezione attraverso un percorso di vita particolare: fill'e anima della vecchia sarta Bonaria Urrai (vale adire bambina ceduta in adozione dalla madre naturale), solo nella tarda adolescenza (nonostante i muti segnali raccolti durante l'infanzia) Maria si renderà conto della reale "professione" di Bonaria, accabadora di Soreni, piccolo paese della Sardegna.
Il termine (derivato dallo spagnolo acabar, "finire") indica quelle donne (donne-lupo, verrebbe da dire, pensando alla Pariani) che vivono e che lavorano in limine, la cui funzione è quella di dare un aiuto alla morte, liberando vecchi e ammalati dalle loro ultime sofferenze terrene.
Tradizione antichissima, che affonda le sue radici nel culto ctonio delle dee madri; accettata dalla comunità tutta e sopportata (seppure con evidente imbarazzo) perfino dalla (più debole, è innegabile) cultura ufficiale cattolica: «[...] il prete Pisu cercò a fatica nei più profondi anfratti della sua povera retorica le parole per non dire che quella donna, a suo parere, non andava nemmeno sepolta in camposanto» [2].
Accabadora è un romanzo che ha tutta la semplicità e la profondità delle storie popolari: esso ci insegna l'importanza del silenzio («Come le aveva insegnato Nonaria, Maria Listru Urrai indossò il lutto con discrezione» [3]) e del saper com-prendere i misteri ultimi del dolore e della morte, senza avere fretta di ergerci a giudici dell'esistenza altrui: «Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata» [4].
Scritto in una prosa agile, senza fronzoli e tuttavia incisiva (soprattutto nelle parti dialogate), il romanzo ha vinto il Premio Campiello Letteratura nel 2010.
M. Murgia
Accabadora
Einaudi
Torino 2009 (I ed.)
Note
[1] M. Murgia, Accabadora, Einaudi, Torino 2009 (I ed.), pp. 116-117.
[2] Ivi, p. 163.
[3] Ivi, p. 163.
[4] Ivi, p. 118.
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