PRIVATO: dal lat. privatus, "proprio di una sola persona, particolare, singolo, solo, speciale"
Dai in pasto il tuo privato al grande pubblico e ai media; pubblica ogni frammento della tua vita personale (speciale) su Facebook, su Twitter, su Youtube. Solo in questo modo avrai centrato l'obiettivo e sarai ritenuta all'unanimità (o quasi) una persona coraggiosa, capace di "metterti in gioco" e di "muoverti apertamente".
Nell'epoca dei social network il pudore viene troppo spesso confuso con la vergogna. Il fraintendimento non è privo di conseguenze: se la vergogna infatti è sempre connessa all'idea di colpa, il pudore, al contrario, è un sentimento di verecondia che «induce avversione alle cose disoneste» (ancora dal dizionario etimologico). Si tratta di una disposizione dell'animo umano che dovrebbe essere tenuta in massimo conto - se la scala di valori che puntella la nostra società non fosse stata drammaticamente rovesciata.
Parlare di pudore e di difesa del privato al giorno d'oggi è una battaglia persa: provate a diventarne strenui paladini e constaterete in prima persona il sospetto e l'avversione dei vostri interlocutori.
In mezzo a tutto il bailamme provocato dal "caso Simonsen" (la ragazza affetta da deficit di alfa-1 antitripsina che ha dichiarato il suo sostegno alla sperimentazione animale: ne ho già parlato anche su Natividad), un particolare modesto, quasi insignificante, ha attirato la mia attenzione.
In un'intervista rilasciata a "Il Fatto Quotidiano", Susanna Penco, ricercatrice, malata di sclerosi multipla e contraria alla vivisezione, ha dichiarato:
«Mi sconfortano le parole offensive verso la studentessa [Caterina Simonsen], poiché educazione e civiltà sono valori imprescindibili. Tuttavia, contrariamente a lei, troverei umiliante per me stessa farmi fotografare con una flebo attaccata alla vena: pertanto metto in rete una foto in cui appaio sorridente, anche se molto spesso sono tutt’altro che serena o in salute. Detesto le strumentalizzazioni di qualsiasi genere».L'affermazione della Penco, riportata anche sul sito de "Il Giornale", non è passata inosservata:
«Carissima dottoressa non vedo cosa ci sia da vergognarsi a farsi vedere con un respiratore»scrive piccato un commentatore.
Ecco che ancora una volta la difesa della propria intimità viene scambiata per vergogna.
Caterina Simonsen |
Quante volte, scorrendo le pagine di siti, blog e social network o facendo zapping tra i numerosi e lacrimevoli talk show siamo stati colpiti dall'inopportunità di certe dichiarazioni "senza veli"? Quante volte ci siamo domandati se fosse il caso di ostentare in quel modo (con singhiozzi in diretta, fotografie, parolacce e imprecazioni negli status) il proprio dolore, la propria rabbia, la propria frustrazione... A me è capitato spesso. E non di rado mi sono sentita rispondere: «Perché dovrei tacere? Non ho nulla di cui vergognarmi, io!». E va bene. Ma l'essere incolpevoli (come quel "Non ho nulla di cui vergognarmi" pare suggerire) non deve per forza tradursi nella rinuncia all'intimità, nell'esposizione alla gogna mediatica. Perché chi si sente incolpevole accetta comunque di rinunciare alla parte più preziosa (speciale, come già detto) di sé? Perché, sebbene innocenti, scegliamo così di frequente di affrontare la peggiore delle punizioni?
«Comportandoci in questo modo ognuno di noi dà un ottimo esempio di quell'omologazione dell'intimo a cui tendono tutte le società conformiste che alla massima "a ognuno il suo" sostituiscono quell'altra, "a ognuno il mio" [...]. E poiché sa che, se non si comportasse così, se rifiutasse espressamente questo comportamento, verrebbe considerato "sconveniente" e diventerebbe "sospetto", lo fa anche con un certo ardore, con somma gioia di chi deve governare la società, perché, una volta pubblicizzata, l'intimità viene dissolta come intimità, e gli altri, che dovrebbero stare al confine esterno dell'intimo, diventano letteralmente "inevitabili", ogni volta che ciascuno di noi prova una sensazione, un'emozione, un sentimento.» [1]
«Non vi siete divertiti? NON VI SIETE DIVERTITI?»
Note
[1] U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano 2003, p. 88.
[2] Allo stesso modo non si sono mostrati particolarmente oculati neppure coloro che l'hanno insultata e le hanno augurato di morire; ma questa è una questione (forse) più ampia e complessa...
PS: in questo post ho utilizzato il "caso Simonsen" solo come spunto per proporre riflessioni generali sulla moderna pubblicizzazione del privato. Non vorrei finire a parlare di pro s.a. vs anti s.a. Se proprio volete discutere delle ragioni della Simonsen e della sperimentazione, andate su Natividad. Per favore.
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